A seguire il testo dell’articolo pubblicato oggi sull’inserto “l’Extra Terrestre” de Il Manifesto sui Colloqui di Dobbiaco 2020 e le lezioni da trarre dalla pandemia Covid 19 per affrontare l’emergenza climatica.
Buona lettura!
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Il 72% degli italiani considera il cambiamento climatico un problema più serio sul lungo periodo della pandemia Covid-19 e per oltre l’80% il governo dovrebbe considerare il problema ambientale prioritario per il rilancio dell’economia: sono alcuni dei risultati emersi dalla ricerca Ipsos su sostenibilità e ambiente diffusi il 6 agosto.
Intorno alle lezioni da trarre dalla pandemia Covid 19 per affrontare l’emergenza climatica si sono dipanati interventi e domande degli esperti intervenuti all’edizione 2020 dei Colloqui di Dobbiaco (26-27 settembre). La paura che ha suscitato la pandemia ci ha davvero aperto gli occhi sui pericoli del surriscaldamento globale? La capacità di adattamento dimostrata nell’accettare l’uso delle mascherine e il distanziamento sociale, la determinazione con cui si sono chiusi interi comparti produttivi nella fase acuta del contagio ci dicono che siamo pronti ad affrontare i cambiamenti imposti dalla transizione energetica zero-carbon? O la crisi economica e occupazionale post-lockdown spingerà a ripristinare lo status quo ante?
In controtendenza rispetto al sondaggio Ipsos, per Stefano Caserini (Politecnico di Milano) “mentre l’emergenza corona virus è stata percepita, quella climatica non è ancora compresa nella sua drammaticità, nonostante i rapporti dell’Ipcc, la task force di scienziati che studiano il clima per l’Onu, ci ammoniscano che ci vogliono misure straordinarie per allentare la pressione antropica sul clima: entro il 2050 bisogna azzerare le emissioni di CO2. Un compito immane per il quale abbiamo solo tre decenni a disposizione, mentre la Cina si è impegnata a farlo entro il 2060. La transizione è partita, ma prevale l’inerzia. E non basta ridurre le emissioni climalteranti, dobbiamo anche sottrarre dall’atmosfera l’anidride carbonica già emessa. Per questo”, ha sottolineato “c’è bisogno di indirizzi politici coerenti e investimenti a tutti i livelli”.
Il consistente contributo di emissioni climalteranti della mobilità motorizzata è un dato acquisito. “Che fare? Cambiamo i motori delle auto o le città?”, ha chiesto Lorenzo Pagliano. A Parigi (dove insegna e si sposta con una bici pieghevole) “hanno scelto di cambiare la città: sulla ciclomobilità investono 120 milioni di euro; e l’emergenza Covid ha accelerato il piano per estendere i percorsi ciclabili: anche in vie centralissime sono riservate a biciclette e monopattini corsie larghe 4 metri e mezzo prima riservate ai bus, che adesso circolano nelle ex corsie per auto”.
Lontano dal pensiero di Alex Langer, che riteneva che il motore della conversione ecologica sia la sua desiderabilità, Graeme Maxton, già segretario generale del Club di Roma, si è concentrato sulla necessità di fare scelte radicali imposte dall’alto (vedi intervista a fianco): “L’epidemia ha mostrato che si possono chiudere le fabbriche e mettere i lavoratori in cassa integrazione. Colpendo l’economia, il virus ha svolto parte del nostro lavoro e può essere la porta verso il cambiamento”.
Meno apocalittico, Matthias Horx, direttore dell’Istituto per il Futuro di Vienna, ha delineato “la rivoluzione tecnologica che ci darà l’energia pulita di cui abbiamo bisogno, con impianti solari che sfruttano le radiazioni solari H24, impianti eolici senza pale, fino alle strade che ricaricano le auto elettriche, e alle opportunità dell’idrogeno”. Quanto alla pandemia, “ci ha consentito di riscoprire il piacere di fare cose dimenticate e ha fatto emergere la maggiore resilienza delle comunità solidali”.
Di resilienza ha parlato anche Enrico Giovannini, presidente di Asvis, l’Associazione italiana per lo sviluppo sostenibile, sottolineando la necessità che sia di tipo trasformativo, ossia non finalizzata a riportarci semplicemente alla situazione di partenza. Con un altro interessante punto fermo nel suo ragionamento: “Vanno difesi i lavoratori, non i posti di lavoro”, condizione indispensabile per chiudere quelle produzioni inconciliabili con la transizione ecologica ed energetica, ma senza creare disoccupazione e disagio economico e sociale per chi sarà colpito dalla trasformazione.