Pubblico di seguito l’articolo “L’Italia rinnovabile nella transizione verso l’era post fossile uscito a mia firma sul numero 30 di micron di ottobre-novembre 2014, la rivista trimestrale di Arpa Umbria – l’Agenzia regionale per la protezione ambientale dell’Umbria.

L’ITALIA RINNOVABILE NELLA TRANSIZIONE VERSO L’ERA POST FOSSILE

di Silvia Zamboni

Domenica 16 giugno 2013, tra le ore 14 e le 15, per la prima volta il prezzo di acquisto dell’elettricità sull’intero territorio italiano (PUN: prezzo unico nazionale) è sceso a zero. In altre parole, la domanda di elettricità registrata in quell’ora è stata coperta al 100% da fonti rinnovabili. Un’ora storica, dunque, in una data altrettanto storica, sia per il sistema energetico, sia per la nostra bolletta (in alcune aree del paese in passato il PUN era già stato azzerato, ma mai, prima del 16 giugno, questo record aveva riguardato tutta l’Italia).

Sicuramente la giornata completamente soleggiata e ventilata e le riserve ottimali nei bacini idroelettrici hanno dato una mano. Ma sulla dimensione e le performance della potenza rinnovabile installata nel territorio nazionale ci dice molto di più il dato consolidato sulla produzione di elettricità da fonti pulite: nel 2013 ha soddisfatto quasi un terzo (esattamente il 32,9%) della domanda di elettricità e circa il 15% dei consumi energetici complessivi.

Un’ulteriore conferma del cammino percorso dal sistema energetico italiano nella transizione all’era post-fossile viene dalla classifica europea che fotografa la potenza rinnovabile installata nel 2013: per il fotovoltaico con 17.647 MW (pari a 0,2941 kw/abitanti) l’Italia risulta seconda dietro solo alla Germania (con 32.411 MW totali e 0,3932 kw/abitanti); mentre per l’eolico con 8.650 MW è quarta dopo Germania (31.424 MW), Spagna (22.784) e Regno Unito (8.889); infine, nel settore del solare termico appare staccata dai primi nel rapporto installato/abitanti: con 3.365.750 metri quadrati installati e un rapporto di 0,06 mq/abitanti l’Italia si piazza alle spalle di Austria (4.108,338 mq. installati e un rapporto di 0,49), Grecia (rispettivamente 4.119.200 e 0,36), Germania (16.049.000 e 0,19) e Danimarca (682.345 e 0,12) (fonte: rapporto annuale di Legambiente “Comuni rinnovabili 2014” pubblicato ad aprile di quest’anno). Stando alle elaborazioni di Legambiente, in tutti gli 8054 comuni italiani è in funzione almeno un impianto – elettrico o termico – alimentato da fonti rinnovabili, per un totale di oltre 700mila installazioni. Uno scenario che descrive concretamente l’avvento della generazione diffusa nell’ambito del sistema energetico italiano, fino a un recente passato basato invece esclusivamente sugli oligopoli e le mega centrali alimentate da fonti fossili. E sebbene nell’ultimo triennio le politiche governative degli incentivi tariffari si siano caratterizzate per un andamento sussultorio, con evidenti ripercussioni negative sul mercato degli investitori esteri e sull’industria di settore italiana, il risultato della transizione ad un sistema energetico low carbon resta di tutto rispetto: nonostante la contrazione della nuova potenza installata, nel 2013l’Italia ha superato il “muro” delle 100 TWh di elettricità prodotte da fonti rinnovabili, toccando per la prima volta l’”Everest” delle 104 TWh.

Questo incremento trova puntuale corrispondenza nella dotazione energetica dei comuni italiani: non solo, come si è detto, il 100% degli 8054 comuni ospita sul proprio territorio almeno un impianto alimentato da fonti rinnovabili (secondo una progressione costante che ha visto il numero dei comuni rinnovabili passare dai 3190 del 2008 ai 7937 del 2013), ma cresce anche, toccando quota 29, il numero dei comuni già rinnovabili al 100%, ovvero completamente autosufficienti dal punto di vista della copertura dei fabbisogni di elettricità e di calore (per illuminazione, riscaldamento, acqua calda per usi sanitari, elettricità) grazie all’impiego delle sole fonti rinnovabili: dal solare fotovoltaico (FV) al solare termico, dalle biomasse (a filiera corta), alla geotermia (a bassa entalpia), dal mini-idroelettrico e all’eolico, escludendo, quindi, nel computo di Legambiente, i comuni il cui fabbisogno energetico è coperto in parte anche da impianti geotermici ad alta entalpia e dai grandi bacini idroelettrici. Parametri e criteri di selezione rigorosi che riducono i potenziali candidati alla medaglia d’oro dei comuni rinnovabili al 100%, se solo consideriamo che i comuni italiani che producono più elettricità di quanto ne consumano sono ben 2629.

Tornando ai magnifici 29 energeticamente autosufficienti, sono presenti in maggior parte nella provincia autonoma di Bolzano (20) e, a seguire, in quella di Trento (4) e di Aosta e Sondrio (2 per ciascuna). Tra i comuni di maggiori dimensioni, autosufficienti dal punto di vista elettrico, distribuiti dal nord a sul del nostro paese, spiccano quelli di Cuneo, che con un mix di cinque fonti rinnovabili (fotovoltaico, mini-idro, geotermia, biogas e biomassa) copre il 100% del fabbisogno elettrico dei residenti; Foggia, che soddisfa la domanda elettrica delle famiglie con 3 tecnologie (FV, eolico e biogas); Terni che raggiunge questo risultato con 5 tecnologie (FV, mini-idro, biogas, biomassa, bioliquid); infine Lecce che ottiene l’autosufficienza con FV ed eolico.

Buone notizie, visto che la transizione all’era post-fossile piuttosto che un optional va considerata una strada obbligata. E per più di una ragione. Insieme ai fattori ambientali che impongono di ridurre le emissioni di gas serra, ci sono motivi economici (il raggiungimento del peak-oil renderà l’estrazione del petrolio anche economicamente oltre che energeticamente svantaggiosa), e geo-politici (l’intensificarsi dell’instabilità delle regioni da cui importiamo gas metano e greggio, o di quelle attraversate da gasdotti, che ha portato in primo piano – a danno delle stesse tematiche ambientali – il problema della “sicurezza energetica”, intesa oramai come sicurezza degli approvvigionamenti). Infine, per un paese come il nostro, che nel 2012 ha pagato una bolletta energetica record di 64 miliardi di euro, il passaggio ad un sistema energetico low-carbon va perseguito anche per obiettivi squisitamente di bilancio.

Quanto poi al nuovo miraggio energetico, quello dello shale gas a basso prezzo made in Usa, secondo Gianni Silvestrini, direttore scientifico di Kyoto Club, si tratta di una “bolla energetica” destinata a sgonfiarsi, a causa “dell’elevatissimo tasso di declino della produzione dei pozzi e degli enormi capitali necessari per tamponare il calo di produzione”, come scrive sul numero di aprile-maggio 2014 della rivista QualEnergia. I numeri citati da Silvestrini parlano chiaro: “Nel 2012 sono stati spesi 42 miliardi di dollari per perforare settemila nuovi pozzi a fronte di entrate per 32,5 miliardi di dollari dalla vendita del gas”. Per non parlare del fatto che si tratta di tecniche estrattive ad alto impatto ambientale.

Fallite le varie conferenze mondiali sul clima che non sono state in grado di fissare la nuova strategia post-Kyoto (il prossimo appuntamento è fissato per l’autunno del 2015 a Parigi), a motivare la transizione energetica restano i vincoli europei, vecchi e nuovi. Se l’Italia ha sostanzialmente centrato gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 eq che si era data sottoscrivendo il Protocollo di Kyoto, ed è in dirittura d’arrivo per rispettare anche quelli del “Pacchetto Clima-energia 20,20,20” dell’Unione Europea (meno 20% di emissioni di CO2, più 20% di impiego delle rinnovabili sui consumi finali di energia al 2020), bisogna che si attrezzi per tempo per rispondere ai nuovi obiettivi al 2030 che la Ue deve fissare in funzione del rispetto dell’impegno che ha preso di ridurre dell’80%-90% le emissioni di gas serra al 2050.

Proprio sulla modulazione di questi obiettivi si giocherà una delle prime battaglie politiche all’interno e tra gli organi che guideranno l’Unione europea nel prossimo quinquennio. Un antipasto di questo confronto ci è già stato servito nel primo trimestre di quest’anno (l’ultimo della passata legislatura), quando Commissione Barroso e Parlamento europeo si sono scontrati sugli obiettivi da imporre all’Unione europea da qui al 2030: mentre la Commissione (vedi la Comunicazione sul Quadro per le politiche dell’energia e del clima per il periodo dal 2020 al 2030) era a favore dell’obiettivo del 27% di consumi finali di energia coperti dalle rinnovabili, il Parlamento europeo era per il 30%. A marcare ulteriormente questo braccio di ferro si è aggiunta la mancata indicazione, da parte della Commissione Barroso, di un obiettivo vincolante in materia di efficienza energetica. Mentre il target proposto di riduzione del 40% delle emissioni di CO2 è apparso del tutto insufficiente rispetto alla necessità di abbassarle del 80-90% al 2050, che richiede di attestarsi al 2030 su un – 55%.

La nuova strategia energetica della Ue incrocia inoltre i destini di un auspicato Green New Deal europeo e la possibilità di creare nuova occupazione pulita, a cominciare dal potenziale rappresentato dall’efficienza energetica, tipica opzione win-win. “Con un target vincolante di efficienza energetica molto modesto (30% al 2030) capace di orientare politiche e investimenti nei settori dell’edilizia, dei trasporti, delle politiche urbane e dell’industria – scrive Monica Frassoni nel suo contributo al libro “Un’altra Europa. Sostenibile, democratica, paritaria, solidale” (a cura di Silvia Zamboni, Edizioni Ambiente, 2014) – si possono: a) risparmiare fino a 50 miliardi di euro all’anno, somma equivalente alla vendita di energia elettrica dell’intera Francia nel 2011; b) creare ogni anno 1.500.000 posti di lavoro; c) ridurre del 40% la spesa per le importazioni di risorse energetiche, che nel 2011 ammontavano a 573 miliardi di euro; d) ridurre di circa un terzo le emissioni totali della Ue; e) risparmiare circa 30 miliardi di euro all’anno evitando di costruire nuove infrastrutture”.

Né l’Europa, dopo avere guidato la transizione all’era post-fossile sottoscrivendo il Protocollo di Kyoto e approvando il pacchetto “Clima-energia 20, 20, 20”, che hanno contribuito ad aumentare, nella Ue, la percentuale di consumi energetici finali coperti dalle rinnovabili – passati dall’8,5% del 2005 al 14,4% del 2012, con la previsione di superare agevolmente il 20% al 2020 – può rinunciare alla leadership che si è conquistata come battistrada nel cammino verso la de-carbonizzazione del sistema energetico, pena la perdita di posizioni sul terreno dell’innovazione tecnologica a vantaggio di Cina e Usa, che stanno investendo massicciamente in questi settori.

In questo contesto, i deludenti obiettivi al 2030 fissati dal Consiglio europeo il 24 ottobre scorso nel corso del semestre a presidenza italiana – ossia meno 40% di emissioni di CO2,, più 27% di consumi energetici finali coperti da rinnovabili, più 27% di efficienza energetica, target, quest’ultimo non ancora obbligatorio – risultano molto al di sotto di quanto auspicato sia in funzione della lotta ai cambiamenti climatici, sia della leadership europea nei settori industriali di riferimento (n.d.a successiva alla pubblicazione dell’articolo sulla rivista).

Ovviamente non la pensa così la lobby europea dei fossili, che in questi anni ha goduto di buon ascolto a Bruxelles, se solo consideriamo la fetta di incentivi di cui hanno beneficiato i fossili: mentre sui media impazzava la guerra alle rinnovabili super sovvenzionate, si è appreso un dato (richiamato da Monica Frassoni nel libro citato “Un’altra Europa”) che rovescia il panorama: “I sussidi pubblici totali per la produzione energetica nella Ue nel 2011 ammontavano a 26 miliardi di euro per i combustibili fossili (a cui vanno aggiunti 40 miliardi di euro per le spese sanitarie correlate), a 35 miliardi per l’energia nucleare e a 30 miliardi per le energie rinnovabili”.

Dipenderà adesso dal nuovo Parlamento europeo e dalla nuova Commissione fissare traguardi ambiziosi al 2030, aprendo la strada a quelli ancora più stringenti per il 2050 per l’uscita dall’era fossile. Nella consapevolezza che il tandem energetico con cui pedalare verso l’età solare post-fossile deve avere due ciclisti sui sellini: l’efficienza energetica per ridurre i consumi, e le fonti rinnovabili per coprire con l’energia verde la domanda residua.

Rispetto all’Italia, secondo Silvestrini va programmata una fase di transizione finalizzata a ridurre la dipendenza dall’import di gas naturale accelerando, sul fronte della domanda, l’introduzione di pompe di calore ad alta efficienza, caldaie a biomassa e solare termico, e favorendo la diffusione delle rinnovabili elettriche, in particolare del fotovoltaico, ormai avviato alla cosiddetta grid parity e a reggersi senza incentivi, e infine lanciare il biometano (ottenuto da scarti agroindustriali, discariche, mega allevamenti, depuratori).

Sempre sul fronte della domanda, bisogna poi puntare sulla riqualificazione energetica degli edifici: con un taglio annuale dei consumi dell’1,5% nel settore civile, in dieci anni si arriverebbe a risparmiare l’equivalente di oltre un terzo (8 miliardi di metri cubi) dell’importazione di gas metano dalla Russia (pari a 22 miliardi di metri cubi). E si ridarebbe fiato al settore dell’edilizia, particolarmente bastonato oggi dalla crisi economica, per di più senza consumare suolo vergine. Riconfermando una volta di più che le ragioni dell’ambiente vanno più che mai a braccetto con quelle dell’economia.

Il completamento della transizione all’era post fossile non sarà indolore per i grandi produttori di energia che hanno investito enormi capitali in mega centrali a gas, nei rigassificatori, nell’impiantistica collegata, né per l’indotto di settore. Ma, come ci ha ricordato ISPRA il 19 agosto u.s. in occasione dell’Earth Overshoot Day, “la data in cui l’umanità ha esaurito il suo budget ecologico disponibile per un anno”, da quel giorno fino al 31 dicembre “utilizzeremo risorse oltre il limite. Dopo questa data manterremo, infatti, il nostro debito ecologico, sottraendo beni e servizi al futuro perché gli ecosistemi non sono più in grado di rigenerarli”.

In questo panorama, i comuni italiani possono fungere da motore verde della transizione: attraverso lo strumento dei piani energetici locali e opportune politiche in materia, ad esempio, di illuminazione pubblica, mobilità, uso del territorio, riduzione/riciclo/gestione dei rifiuti, riqualificazione energetica possono incidere, in maniera diffusa sul territorio nazionale, sulle emissioni climalteranti nei settori civile-residenziale e della mobilità, oltre a favorire, con “gli acquisti verdi” della Pubblica Amministrazione, i settori della green economy. Ed è quindi un’altra buona notizia che con 2575 adesioni l’Italia guidi la speciale classifica europea dei comuni che hanno aderito al Patto dei Sindaci sottoscrivendo volontariamente l’impegno a ridurre le emissioni di CO2 al 2020 oltre il 20% indicato dal vincolo europeo.

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Silvia Zamboni

Giornalista – Ambiente e Sostenibilità, Energia e Cambiamenti Climatici, Economia Circolare, Green Economy, Sharing e Digital Economy, Mobilità Sostenibile, Turismo Sostenibile, Agricoltura e Manifattura Biologica, Politiche Ambientali Europee.