L’industria dell’abbigliamento, non solo della cosiddetta fast fashion ma anche di fascia alta, ha un enorme impatto sull’ambiente, per lo più coperto da un generale silenzio stampa. Nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox per promuovere l’impiego di tinture, ammorbidenti e fissatori non tossici. Ne parlo nell’articolo “Panni sporchi”, uscito sul numero di ottobre del mensile la nuova ecologia, che pubblico di seguito.
Per più della metà degli italiani combattere la noia e lo stress o cercare di aumentare l’autostima sono le motivazioni principali che fanno scattare l’acquisto compulsivo di capi di abbigliamento. Il senso di soddisfazione post-shopping svanisce però in poche ore, cedendo il posto, a volte, ai sensi di colpa. Lo rivela un’indagine commissionata da Greenpeace e condotta da Swg su un campione di 1.000 italiani, uomini e donne, di età compresa tra i 20 e 45 anni. Risultato della shopping-mania: un interpellato su due dichiara di possedere più capi di abbigliamento di quanti gliene servano. Abiti che spesso giacciono inutilizzati nell’armadio, addirittura ancora provvisti del cartellino col prezzo.
Non deve stupire che Greenpeace abbia messo a fuoco (con analoghe indagini svolte in Cina, Hong Kong, Taiwan e Germania) questa dipendenza comportamentale che ha per oggetto del desiderio l’abbigliamento: dal 2011 ha lanciato infatti la campagna internazionale Detox «per denunciare l’inquinamento ambientale legato all’industria della moda e dell’abbigliamento sportivo, e per promuovere percorsi di detossificazione dei processi di lavorazione tramite l’eliminazione di tinture, ammorbidenti, fissatori e altri coadiuvanti dei processi di lavaggio, filatura e tessitura che contengono sostanze chimiche tossiche», spiega Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia.
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