Questo articolo è stato pubblicato sul mio blog sul Fatto Quotidiano
L’addio definitivo al nucleare della Germania è una decisione storica. Come scrivono sul loro portale i Grünen, i Verdi tedeschi, la pietra tombale su questa tecnologia da parte della prima potenza economica dell’Unione Europea chiude un’epoca e ne apre un’altra. Il distacco dalla rete di trasmissione elettrica delle ultime tre centrali nucleari ancora in funzione, di vecchia generazione e potenzialmente più problematiche in termini di sicurezza, mette la parola fine ad oltre cinquant’anni di lotte del movimento antinucleare tedesco, una delle costole fondanti dei Verdi.
Del resto, una delle principali battaglie fu condotta contro il sito per il deposito delle scorie che a fine anni Settanta il governo voleva realizzare a Gorleben. Non ce la fece. E da allora il problema della realizzazione di un sito in cui confinare in sicurezza le scorie altamente radioattive è rimasto insoluto. Un buon motivo per non continuare a produrne.
Con l’addio al nucleare, la Germania annuncia l’addio al carbone nel 2030 e conferma la volontà di puntare con decisione sulle rinnovabili mettendo a tacere i critici che prevedevano un aumento del ricorso alle fonti fossili. Non sarà così! Il programma della coalizione del governo “semaforo” di Berlino – i rossi socialdemocratici, i verdi Grünen e i gialli liberali – punta all’80% di energia da fonti rinnovabili già al 2030 (oggi sono al 51% del mix elettrico). Mentre da noi il governo Meloni blatera e, quel che è peggio, lavora per fare del nostro Paese l’hub del gas…
L’addio al nucleare è una decisione che viene da lontano. Il primo governo a prenderla fu quello rosso-verde Schröder-Fischer. La cancelliera Merkel la rimise in discussione salvo poi confermarla a seguito dell’incidente di Fukushima. Lo slittamento allo stop ai reattori (dal 2022 al 2023) è stato invece deliberato per far fronte alla riduzione di import di gas dalla Russia a causa della guerra in Ucraina. Un conflitto che ha prodotto anche un maggior ricorso al carbone per sostituire il metano.
Dire però che lo spegnimento degli ultimi reattori attivi farà aumentare l’uso del carbone è fuorviante. Saranno le rinnovabili a sostituire l’elettricità prodotta dall’atomo.
La decisione del governo tedesco si colloca agli antipodi dalla Francia, in balia di continui guasti al suo parco nucleare, largamente decotto, e con i cantieri della centrale in costruzione a Flamanville aperti da anni, con i costi in continuo aumento che hanno portato al fallimento della società costruttrice. Del resto, il nucleare è una tecnologia non solo “più vecchia del transistor” – come ebbe a dichiarare il Premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi quando presiedeva la Commissione parlamentare speciale sul decomissioning – ma dai costi proibitivi, per cui si regge solo se pesantemente sovvenzionata dallo Stato. A futura memoria ricordo inoltre che quella di Flamanville è la tecnologia che Berlusconi voleva comprare dall’allora presidente francese Sarkozy, una decisione poi bocciata dal secondo referendum antinucleare tenutosi nel nostro paese nel 2011.
In Italia, grazie ai Verdi, al movimento contro il nucleare e ai voti dei cittadini nel primo referendum, l’uscita dal nucleare risale al 1987. Negli ultimi anni però ha ripreso piede da noi una discussione, completamente astratta, della necessità di un ritorno all’energia atomica. Un dibattito dominato dai vaneggiamenti sul nucleare sicuro di quarta generazione che esiste solo sulla carta. Basterebbe poi pensare al fatto che, a più di 35 anni di distanza dal primo referendum, anche in Italia non si è ancora trovato un sito per deporvi in sicurezza le scorie radioattive prodotte negli impianti nucleari chiusi di Vercelli, Caorso, Garigliano e Latina.
Sostenere ancora oggi l’opzione nucleare vuol dire non rendersi conto dei rischi che comporta questa tecnologia, del problema gigantesco, ambientale e sanitario, delle scorie altamente radioattive da smaltire, dei costi e dei tempi biblici di realizzazione degli impianti per provare a renderli più sicuri, della non disponibilità in Italia di uranio, e, non da ultimo, del legame tra uso civile e militare del nucleare. Problemi a cui oggi si aggiunge quello – non meno impegnativo in presenza del fenomeno sempre più diffuso della siccità – dei grandi quantitativi d’acqua necessari per il raffreddamento.
Senza dimenticare che per loro natura le rinnovabili sono fonti più democratiche e decentrate sui territori rispetto al nucleare, che non può che essere gestito, oltre che sovvenzionato, centralmente.
Vista dall’Italia, la Germania che punta al 100% di rinnovabili al 2035 appare lontana anni luce. In Italia (dati Terna relativi al 2022) le rinnovabili coprono solo il 31,1% del fabbisogno elettrico nazionale, contro il 35,4% del 2021: si va indietro anziché andare avanti. E manca una spinta seria per far correre le rinnovabili.
Il governo Draghi prima, e quello Meloni poi, a seguito della guerra in Ucraina hanno semplicemente agito per uno switch dai fornitori di gas metano: via la Russia, dentro nuovi produttori di metano (ad esempio dall’Africa) e incremento di forniture dai nostri fornitori storici. Anche la sostituzione dell’amministratore delegato di Enel Francesco Starace lascia dei dubbi, visto che aveva indirizzato il colosso energetico verso la neutralità carbonica già al 2040. Analogamente, preoccupa la riconferma di Claudio Descalzi a Eni, in linea con i programmi meloniani a tutto gas del “Piano Mattei” e dell’Italia “hub del gas”.